ISPPREF
ISTITUTO DI PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA RELAZIONALE E FAMILIARE
QUADRIENNIO DI FORMAZIONE TERAPEUTICA
Nell’ambito della formazione dello psicoterapeuta relazionale,la biografia familiare riveste una importanza tutta propria. Molti dei nostri problemi nelle relazioni intime, sono radicati nei nostri legami e nelle realtà nascoste verso i nostri familiari che per primi ci hanno amato e hanno dato forma alla nostra vita.
Certo non voglio nè posso dire tutto in queste poche pagine che seguiranno. I ricordi familiari persistono al di là dello spazio e del tempo, rinchiusi e a volte abbandonati nelle stanze della memoria. Lavorare su questo mi è sembrato un buon inizio per lo studio sistemico relazionale delle famiglie
Domenico Maria Taverna
BIOGRAFIA FAMILIARE
MEMORIE E RIEVOCAZIONI PERSONALI DI UN TERAPEUTA IN FORMAZIONE
Si racconta che sabato 2 maggio dell’anno del Signore 1959,a Napoli, fosse proprio una gran bella giornata.Gli abitanti della città vecchia si preparavano ad ospitare per le viuzze del centro storico, la processione di San Gennaro che, come tutti i primi sabato del mese di maggio, rinnova il prodigioso evento della liquefazione del sangue.Il chiacchiericcio bigotto delle popolane copriva le grida di dolore di una donna sulla trentina, dai tratti gentili che al quarto piano di una casa grande e decadente, giaceva a cosce aperte sul letto, dando spinta al suo torchio addominale.Altro sangue! E si tingevano di profano le pezzuole di lino bianche che l’ ostetrica aveva preparato da parte e che un uomo si affrettava a porgergliele. Erano da poco suonate le nove al pendolo della camera da pranzo che io caddi fuori dall’utero di mia madre.
Mio padre credo indossasse sicuramente la cravatta. Ricordo di non averlo mai visto vestito diversamente. Non era un fissato: era soltanto un distinto.Ultimo di tre fratelli, Gabriele, questo il suo nome, si era sposato tardi (40 anni) non perché fosse un edonista ma per via una laurea sentita come un traguardo esistenziale.
E’ dal 1600 che la famiglia Taverna sforna notai, chirurghi, avvocati, farmacisti ingegneri e perfino un cardinale.Mio zio Antonio, il primogenito, aveva seguito la professione del padre, cioè mio nonno e faceva l’ingegnere. Mio zio Lorenzo il secondogenito, si era dedicato all’esercizio della professione medica. Ancora oggi all’ospedale Ascalesi l’attuale primario di cardiologia lo ricorda come suo maestro. E Gabriele? Gabriele non ce la fece e rimase schiacciato dai 6 tomi di anatomia patologica e dalla sua famiglia di origine. Ciò contribuì non poco alla sua disistima e a quella patina di fallimento che riversò su tutte le cose. Mia madre lo attese anche se negli ultimi anni i loro rapporti divennero frequentemente tesi. Ricordo che spesso la tensione era altissima tanto che a volte non trovavo di meglio da fare che rifugiarmi a casa di mia zia Anna (una sorella zitella di mia madre) che abitava alla porta accanto. Lì a poco a poco costruii il mio rifugio. Ci misi dentro i miei giocattoli, e man mano che gli anni passavano, i dischi e poi i libri ed infine, verso l’adolescenza, un paio di amici che facevo salire in segreto ed ai quali confidavo, tra le prime boccate di fumo, i tormenti della mia triste condizione. A volte le urla di mio padre arrivavano anche lì filtrando, come per osmosi, attraverso le vecchie pareti. Cosa fare? Meglio nascondersi dicevano gli amici e soprattutto occultare le sigarette.Un giorno, uno di loro ad una improvvisa ispezione di controllo di mio padre non trovò di meglio che un cassetto di un vecchio mobile, nel quale fece scivolare la sua sigaretta ancora accesa.Vissi attimi di terrore. Mio padre entrò come un sergente della Wermacht, sostò per pochi interminabili secondi accanto al tavolo dove io facevo finta di studiare e uscendo sbottò qualche rimprovero ai riguardi di mia madre. Non so se si accorse del cassetto che stava andando in fiamme ma a Natale dello stesso anno ebbi in regalo un pacchetto di sigarette nuovo nuovo con la prescrizione verbale di fumarne soltanto due al giorno e precisamente dopo i pasti principali.Ero l’unico quindicenne a potersi vantare di fumare avanti ai suoi genitori. A volte mia madre entrava nel mio rifugio e si sfogava. Mi raccontava degli ultimi improperi di mio padre nei suoi riguardi, i suoi scatti di ira per un nonnulla, le sue imprecazioni contro il destino avverso e contro il fratello maggiore. Già perché ancora non vi ho parlato di una cosa. Un altro motivo del ritardo nella laurea di mio padre è dovuto al fatto che per anni, i migliori anni della sua vita, si è dovuto dedicare all’amministrazione della proprietà in comune ed indivisa che aveva con i suoi fratelli in Calabria. Si trattava di circa 60 ettari ereditati dagli avi e dagli avi degli avi appartenuti ai Taverna a memoria d’uomo.
Fui portato in Calabria dopo l’operazione che subii ad un mese di vita per stenosi congenita del piloro (ancora sangue).Il soggiorno mi fece bene visto che quando tornai ero bello paffuto ed in piena forma per poter assurgere al rango di erede universale (l’ingegnere non aveva figli e Lorenzo non era sposato). Non fu così. La divisione ereditaria con i fratelli, mia padre non l’ha mai vista, la proprietà è andata in rovina e solo quando bastava poco per ridursi tutto ad un mucchio di macerie, mio zio (l’ingegnere) si è deciso a fare le quote e a dividere l’asse ereditario.
Nella mia famiglia si è sempre parlato di espropri, di mezzadria, di brutta annata, di servitù e quant’altro abbia a che fare con i problemi del mondo agricolo. Agosto era il mese dei resoconti delle rendite. Ci si ritrovava in una specie di castello borbonico nella zona delle Serre Calabre ereditato anche questo dagli avi e, tra tele affrescate, mobili antichi e quadri della Scuola di Posillipo ricevevamo 12 famiglie di coloni in una scena che a me ricorda tanto il film 900 di Bertolucci. Chi dichiarava 60 tomoli di grano chi 50 quintali di olio, chi 300 litri di vino, poi c’era da conteggiare il pascolo delle pecore, il mais, le patate, i lupini, l’erba medica. Qualcuno chiedeva un aumento del salario giornaliero cui non si poteva far fronte, qualcun altro chiedeva la cortesia dei contributi INPS per la moglie che, ammalata, non era potuta andare al lavoro nei nostri campi.Altri ancora si lamentavano dell’aumento dei prezzi del concime. Mio padre amministrava tutto in modo, come dire, “illuminato”. Si compenetrava dei problemi di questa povera gente e non ha mai, dico mai, usurpato una sola lira dalla loro fatica.
Una volta gli vidi dare anche dei soldi ad un colono anziano al quale il fuoco aveva distrutto il raccolto.Fuori la porta si abbracciarono a lungo tra mille ringraziamenti e benedizioni del vecchio che però l’anno dopo morì e mio padre non ha più avuto indietro quei soldi.
In una delle 37 stanze del palazzo, nell’estate del ‘66 fu concepita mia sorella che venne al mondo il 3 febbraio del ‘67 quando io avevo 8 anni.
Solita scena, solita ostetrica. Non c’era San Gennaro e faceva freddo, tanto freddo e col freddo si sa i virus si virulentano.Uno di questi infettò mia sorella che in preda a forte febbre giaceva cianotica nella sua culletta.Mio padre fece diagnosi di meningite otogena ma fu subito redarguito dal fratello, primario cardiologo, il quale lo zitti perché non aveva voce in capitolo in quanto non era nessuno. Fu chiamato il gota della medicina napoletana: il professor Chianca del Cardarelli, la professoressa Santamaria dell’Ascalesi, la professoressa Scieuzo del Santobono che altro non fecero che confermare la azzardata diagnosi di quel fesso di mio padre.
Fu così che con una figlia sordomuta iniziò il lungo calvario di mia madre.
Le cose con mio padre andavavo abbastanza bene in quel periodo. Aveva trovato lavoro in uno studio notarile di un suo amico: una sorta di aiutante notaio la qual cosa lo gratificava alquanto anche se le lamentele venivano dal punto di vista economico. Quel poco che guadagnava lo si doveva spendere per la rieducazione fonetica di mia sorella e per l’istituto Smaldoni l’unica scuola (privata) per sordomuti esistente a Napoli in quei tempi. Mia sorella cresceva senza alcun miglioramento clinico e in famiglia noi tutti imparammo il linguaggio dei sordomuti per farci capire. Nonostante il fatto però che ora con lei potevo intendermi non ricordo di averci mai giocato assieme.Nel 1970 mia zia Adelaide si trasferì in casa nostra perché molto malata e separata dal marito.Questo evento è molto importante nella mia vita perché segna il momento della presa di coscienza della morte.Avevo solo 10 anni quando aiutavo mia zia a vomitare sangue in una bacinella di plastica (cancro allo stomaco) e ricordo come ieri quella sera che mia madre la vestì immobile e fredda: una specie di schiuma biancastra le fuoriusciva dalle labbra (edema polmonare) e quell’odore dolciastro di fiori che invase la casa. Il ricordo di questo evento pur tanto incisivo passa quasi inosservato nella concatenazione degli eventi dolorosi che sconvolsero la mia famiglia cinque anni dopo. Una prepotente voglia di indipendenza invadeva il mio animo in quei anni (parlo tra i 14 e i 16).Il mio rifugio (casa di mia zia Anna alla porta accanto) fu invaso da un andirivieni di parenti perché la zia stava male e mia madre la accudiva chiedendo a volte anche il mio aiuto.Si trattava di sollevarla e pulirla due volte al giorno: zia Anna aveva perso il controllo degli sfinteri e giaceva nel letto in posizione fetale con evidenti piaghe da decubito profonde e maleodoranti. A marzo dello stesso anno un autoambulanza raccolse da terra un uomo distinto, sulla cinquantina, vestito giacca e cravatta e con una cartellina sotto il braccio recante la scritta studio notarile de Martino. Mia madre ricevette la telefonata dal pronto soccorso: “Se vuole vedere suo marito faccia presto. Si tratta di una emorragia cerebrale”.( ritorna il sangue). Al ritorno da scuola trovai la casa deserta e non potrò mai dimenticare ciò che c’era sul tavolo di cucina: nonostante la scarsità di mezzi economici, gli strilli, gli scatti di ira e le scenate di mio padre, mia madre gli stava preparando degli ottimi cannoli alla siciliana per il suo compleanno.
Una piccola figura femminile piegata nel suo dolore è il ricordo che ho di mia madre davanti la sala di rianimazione in attesa del bollettino con le notizie delle condizioni di mio padre. Questo pezzettino di carta recante la dicitura: stazionario, più spesso, peggiorato, raramente miglioramento clinico, veniva emesso due volte al giorno e scandì le nostre attese per circa due mesi. A pasqua del 75 finalmente mio padre fu dimesso e facemmo ritorno a casa. Ricordo di non averlo mai sentito vicino come allora. Riprese anche il lavoro e per circa tre mesi ci fu una bella atmosfera serena eccetto la solita pulizia di mia zia due volte al giorno. Ai primi di giugno mio padre ci chiamò e ci disse che secondo lui aveva un tumore al cervello. Nessuno lo credette ma più per scaramanzia che per sfiducia nelle sue capacità diagnostiche. E invece non si sbagliava. Il 17 agosto fu operato di glioma parieto-occipitale sinistro e il 19 agosto del 1975 all’una e mezza del mattino mia madre ricevette una seconda telefonata che poneva fine ad ogni speranza. Riattaccò e si stese accanto a me piangendo a lungo. Dopo poco ci raggiunse anche mia sorella che capì tutto e la accarezzava.
Non so cosa mi prese. Ho già detto della mia voglia di indipendenza. Ecco. Il momento era arrivato.Una sottile sensazione di gioia invase il mio cuore e con essa anche uno strisciante senso di colpa per quello che osavo pensare: meglio così! Mi ero liberato di un genitore ingombrante ed era finito lo sperpetuo dell’ospedale: ero libero. Chissà, forse fu proprio allora che iniziò la mia schiavitù!
Rimanemmo senza una lira (mio padre lavorava a nero e la rendita era pochissima). Mia madre superò l’esame di magistrale e iniziò ad insegnare. Valorizzò il suo vecchio diploma di dattilografa e la sera batteva a macchina le tesi di laurea. Con pochi soldi acquistò a rate una macchina per maglieria automatica e iniziò a fare dei maglioni bellissimi che vendeva ad amici e parenti. E tutto questo senza mai perdere di vista la rieducazione fonetica di mia sorella e la retta dell’istituto Smaldoni. Io andai a lavorare (marinando la scuola) in un negozio di dischi in un quartiere malfamato di Napoli. Questo per sentirmi ancora più indipendente e anche un po’ per distrazione, perché no.
Tre mesi dopo,a novembre del 75, mia zia Anna morì sgombrando definitivamente il mio rifugio che è ora diventata la casa nella quale abito.
Cinque anni dopo la vita di mia madre ha finalmente trovato un po’ di serenità. Nel 1980 si è risposata con un vedovo andando ad abitare fuori Napoli. Non ci vediamo spesso ma quando lo facciamo mi trasmette sempre la sensazione di una amica che mi ha fatto capire che nella vita non bisogna mai rassegnarsi.
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