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lunedì 9 novembre 2015

ontologia

ONTOLOGIA
A) Significato del termine

“Ontologia” è un termine di origine  relativamente moderna per indicare una scienza molto più antica.  Si trova per la prima  volta – in ossequio a quel vezzo  barocco di adornare la lingua  con parole  di derivazione greca  – in un’opera del Calovius (1636); poi, associato al termine ontosophia nella “Metafisica” del Clauberg (1647). Ma è soprattutto a Christian WOLFF (1679-1754) che dobbiamo la sua definitiva introduzione nel linguaggio filosofico. Nell’opera intitolata “Philosophia prima  sive ontologia” del 1730, Wolff concepisce l’ontologia come un’introduzione generale alla trattazione della cosmologia, della psicologia e della teologia razionale, così definendola : “Philosophia prima, methodo scientifico pertractata, qua omnia cognitionis humanae principia continentur”.

Restando fedeli  all’etimologia del termine, possiamo definire l’ontologia come:
“scienza dell’essere”. Precisando subito  che essa non tratta tanto di questo  o di quell’essere, e neppure dell’esistente in generale, quanto di tutto ciò che esiste proprio in quanto esiste  (di tutti gli esseri  in quanto “sono”).

Oggetto formale dell’ontologia è perciò l’Essere in quanto tale.

B) Problemi metodologici

Affrontare, sia pure in modo  schematico, una trattazione dell’ontologia, richiede la compresenza di due piani di discorso: quello  teoretico e quello  storico.

Non mi sembra tuttavia didatticamente produttivo usare  un metodo “misto”, perché si può correre facilmente il rischio di ingenerare confusione; perciò  ricorrerò alla separazione dei due livelli di discorso (cadendo magari nel rischio  dello schematismo), distinguendo una breve delineazione contenutistica del problema dell’Essere da una più articolata esposizione storica del problema ontologico (da Parmenide a S. Tommaso, con cenni  a Kant, Hegel e Heiddeger).



PARTE PRIMA

L’Essere come oggetto formale dell’ontologia

L’ontologia in quanto scienza o dottrina dell’ESSERE coincide con la philosophia prima di Aristotele, quella  che fu poi chiamata METAFISICA.
In realtà  l’ ontologia è solo la prima  parte della Metafisica, e cioè “la dottrina dell’ente come tale e di tutto ciò che gli appartiene essenzialmente ed immediatamente”. La metafisica aristotelica, come è noto, sfocia  infatti  in una teologia naturale, cioè in una indagine su “Dio e la sostanza soprasensibile”, in una dottrina dell’Essere supremo ed increato.

Per Aristotele (e così pure per gli Scolastici) Ontologia e Teologia costituiscono un’unica scienza: il problema di Dio non è altro che il problema della perfezione di quell’essere che la nostra ragione è in grado di cogliere autonomamente con la propria riflessione.
Si potrebbe anche  dire che la teologia non fa altro che esplicitare e tematizzare il problema di Dio come sostanza assoluta soprasensibile che è implicitamente contenuto nelle idee di essere, di ente e di sostanza guadagnate con la riflessione ontologica.

Va sottolineato però quanto è avvenuto nella riflessione filosofica a partire  dalla seconda metà del Seicento: la solidale connessione tra ontologia e teologia è venuta  via via allentandosi (e proprio in quel WOLFF che, per primo, ha trasformato l’ontologia in una scienza autonoma va rintracciata l’originaria responsabilità di tale distacco), indebolendo in modo  irreparabile la profonda unità di tutta la conoscenza metafisica. Su questa  incrinatura è venuto ad innestarsi il criticismo kantiano, che ha finito per rifiutarle entrambe: l’ontologia, dichiarando inconoscibile l’Essere e ponendo come termine di riferimento ultimo  la Coscienza, e la teologia, mostrando l’infondatezza razionale di qualunque prova  dell’esistenza di Dio e chiudendosi in una posizione agnostica. Con il kantismo, la strada  verso ogni possibile giustificazione razionale della metafisica appare definitivamente sbarrata.

Ma su tutto ciò si tornerà in sede di discorso storico. La nozione di essere
nel bagaglio di idee, nozioni ed esperienze che costituiscono il nostro  “vissuto” di coscienza, l’ idea di essere  ha un posto specialissimo. Prendiamo spunto  da questo  pensiero di GRENET (op. cit. pp. 179-180):

“Né parola definitiva su tutto (per es. Parmenide), né balbettio senza valore (per es. Positivismo), essa ( cioè: l’idea di essere) ci appare come l’ ATTO FONDAMENTALE  CON IL QUALE IL NOSTRO SPIRITO SI METTE IN PRESENZA DI TUTTO IL REALE, DATO  O  NO”.

Esplicitiamo le importanti affermazioni implicate in questa definizione.
Intanto la “nozione di essere” non è una scienza assoluta e onnicomprensiva, ma neppure una parola  senza  significato che mette  capo a qualcosa di indefinibile: essa è il frutto di un atto globale che risulta  dal mettersi in gioco di tutta la nostra  personalità (quindi  non solo l’intelletto) nella sfida di comprensione della realtà, nel tentativo di dar ragione ultima a quello  “stupore” e a quell’  “attrattiva” che si prova nei confronti della constatazione che noi esistiamo e che tutto ciò che ci attornia “esiste”.

IL NOSTRO SPIRITO. La conoscenza presuppone un soggetto, che ne sia il portatore capace ed unico. E’ l’intuizione profonda di uno dei più antichi  pensatori della nostra  tradizione filosofica d’Occidente, Eraclito di Efeso (VI sec. a.C.), lo scopritore del logos (che è insieme ragione, parola  e discorso). Ecco una sua bellissima sentenza: “I confini dell’anima non li potrai mai trovare per quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo logos”. Questa intuizione può essere  sviluppata – ed in effetti  così è avvenuto nella millenaria vicenda filosofica dell’umanità – sul piano psicologico (problema dell’anima), su quello  gnoseologico (l’intelligenza che conosce il reale),  su quello  etico (la coscienza), su quello  religioso (la salvezza individuale)… A noi interessa qui la portata ontologica di questa  intuizione. Identificato da taluni (Idealismo) con la realtà  totale, negato decisamente da altri (Materialismo), ridotto  a pura funzione psichica (Psicologismo), o ancora assimilato ad una “somma di stati di coscienza” o ad un principio di attività  vitale (Intuizionismo), lo SPIRITO ci appare invece  come quell’essenza sostanziale del nostro  IO che, nella sua unità e semplicità, permane al di sotto del flusso  vitale, del divenire temporale e del susseguirsi degli stati d’animo e delle esperienze che facciamo. Non è uno “stato”, un’ “attività”, una “funzione sintetica”; bensì un’entità permanente e sussistente, nella quale l’Essere si manifesta, si rivela, si esprime, si dà.
SI METTE IN PRESENZA. E’ nella luce dello spirito, nell’orizzonte dell’ente, che l’Essere ci appare, la Realtà  si presenta a noi. Anche  questa  è un’intuizione antichissima: per Parmenide l’Essere e la sua “inconcussa verità”  si automanifestano all’intelligenza umana in maniera totale, esauriente, evidente, indubitabile. L’ aletheia (etimologicamente: ciò che non è nascosto) è autosvelamento dell’Essere al Pensiero dell’ente.

L’autopresentazione dell’Essere all’ente è invece  mediata e riflessa, condizionata in buona  parte dai sensi, dall’esperienza della molteplicità sensibile, dalla congenita difficoltà di ridurre  ad unità il variegato mondo dell’esistenza. La nozione dell’essere non è perciò  una NOZIONE PURA, nettamente separata dal contatto diretto con il mondo degli esseri  reali e dalla funzione della sensibilità. Il “mettersi in presenza della realtà  da parte del nostro  spirito”  non è un’operazione immediata ed intuitiva, facile e diretta  ( critica dell’ontologismo, che crede ciò possibile per l’uomo); bensì un cammino tormentato e difficile. Ciò non toglie, naturalmente, il carattere
fondamentale e decisivo di tale operazione. (E’interessante, a tale proposito, la controversia tra Hegel e Schelling sulla possibilità di una conoscenza immediata ed intuitiva dell’Assoluto, perché mette  a fuoco proprio la natura  di questo  atteggiamento conoscitivo primario e fondamentale).

DI TUTTO IL REALE. L’apertura di uno spirito  che cerca la verità è di 360°. Abbiamo detto che si tratta di un atteggiamento che si acquisisce con fatica e con sforzo  – e non di un’intuizione immediata ed esaustiva ; ma è un
atteggiamento che punta  alla totalità. L’idea  di essere  che il nostro  spirito  arriva  a cogliere è proprio l’idea che l’Essere è una totalità indivisibile, che si pone oltre e al di
là delle sue connotazioni e delle sue infinite  sfaccettature.
La conoscenza ontologica fondamentale non ha nulla a che fare con una qualsiasi conoscenza particolare della realtà: essa si appoggia sull’idea dell’Essere come un tutto
DATO O NO. Questa apertura a 360° del nostro  spirito nell’atto ontologico fondamentale non riguarda solo il modo sensibile, ma ogni possibile aspetto del reale, e quindi ogni possibile conoscenza. La nostra  intelligenza non è fatta solo per scoprire e conoscere l’universo sensibile, ma per trascenderlo e travalicarlo. Essa cerca la Perfezione, l’Assoluto, l’Infinito, il Tutto, perciò  non può appiattirsi sull’imperfetto, il finito, il particolare.

PARTE SECONDA
Il cammino storico  dell’ontologia

Il cammino storico  dell’ontologia nel pensiero occidentale E’ una profonda e suggestiva intuizione di Platone ( Teeteto, 155 d), poi ripresa e sviluppata da Aristotele (Metafisica, A, 2), l’idea che la filosofia sia nata dalla “meraviglia”, dallo stupore dell’uomo di fronte  sia alla molteplice varietà  degli esseri  sia al loro ordine  (il mondo, la natura, come kosmos anziché come kaos).

Rileggiamo insieme questi  due passi, tanto celebri  e tanto conosciuti, ma sempre pieni di straordinarie vibrazioni.

Dal TEETETO di Platone:

“TEET. In verità, Socrate, io sono straordinariamente meravigliato di quel che siano queste “apparenze”; e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le vertigini.

SOCR. Amico mio… è proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iride fu generata da Taumanto non sbagliò, mi sembra, nella genealogia”.

(N.B. Iride (simbolo della filosofia) è nella mitologia greca la messaggera degli dei fra gli uomini  ed ESIODO nella sua Teogonia la vuole figlia di Taumante, figlio di Teti e “prodigio del mare”:  in greco  thauma significa appunto “prodigio, meraviglia”).


Dalla METAFISICA di Aristotele:

“Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine (kài nun kài tò pròton), a causa della meraviglia (dià tò thaumàzein): mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori, come i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri e poi i problemi riguardanti l’origine dell’ intero universo”.

Questi  due passi  testimoniano benissimo il radicamento profondo dell’atteggiamento di ricerca filosofica nella coscienza spontanea dell’uomo e anche,  se vogliamo, l’origine “popolare” e non “colta”  della filosofia, la sua stretta  solidarietà con il senso  comune.

La filosofia (nonostante il suo successivo sviluppo spesso assuma l’aspetto di una vera e propria controtestimonianza) non è, come qualcuno maliziosamente crede, il prodotto di un’operazione colta e verticistica, fatta allo scopo  di condurre l’uomo  lontano dalla realtà  e dal comune sentire  (magari per inconfessabili ragioni  di potere  o di dominio). Essa scaturisce dall’approfondimento di domande sorgive, presenti nella coscienza spontanea di ogni uomo, e rappresenta il tentativo umano più alto e più nobile  di rispondervi, elevando lo spirito  dal pedestre asservimento al “concreto” alle vette pure dell’ “astratto”.

(N.B. Nella capacità di “astrazione” della mente  umana dobbiamo vedere il carattere più nobilmente distintivo della nostra  specie  rispetto ad ogni altra condizione animale. Excursus sulle caratteristiche della capacità astrattiva dell’intelligenza umana).

La “meraviglia” – che per il Socrate del Teeteto platonico rappresenta il proprium della filosofia - è la stessa meraviglia del bambino o del primitivo di fronte  allo “spettacolo del mondo”; ma il filosofo altro non fa se non trasformare questo  spontaneo ed ingenuo stupore in un rigoroso e strutturato metodo di indagine. La meraviglia cessa  così di essere  un fatto episodico, una suggestione temporanea confinata nella parte emozionale del nostro  io, per diventare un habitus permanente, una struttura stabile della nostra  ricerca  intellettuale. Comincia così quel cammino, assai  ben descritto in poche  righe da Aristotele, che porta l’uomo-filosofo dal particolare all’universale, dirigendolo verso la comprensione della totalità  e verso l’astrazione pura.

A)  Dagli “esseri”concreti all’Essere degli “esseri”
Il primo “movimento filosofico” della mente  è orientato verso la natura, percepita sì– come è proprio della conoscenza sensibile – nella sua varietà, molteplicità e mutevolezza; ma nello stesso  tempo intesa  anche  come un “tutto unico”,  un universus (ad unum versus).Insomma come un kosmos (ordine/bellezza) e non come un kaos (disordine/male).
Nasce  la domanda: “Che cos’è la natura? ( tì estì fysis). Ma inizialmente l’interesse è tutto centrato sul tì : si va alla ricerca dell’ archè, il principio costitutivo fondamentale della realtà, che ne sia insieme anche  la causa,  il
cominciamento primo.

Le prime  risposte non esorbitano dall’orizzonte naturalistico: ad esempio l’ archè è individuata in uno degli elementi primordiali ( Talete, Anassimene, Eraclito) o in tutti e quattro (Empedocle) oppure in un’infinità di principi sostanziali (i “numeri” di Pitagora o i “semi”  di Anassagora). Naturalmente non mancano spiragli od anticipazioni verso nuovi  approfondimenti: per esempio l’ apeiron (indefinito, senza  confini) di Anassimandro, il panta rei (divenire) di Eraclito, il nous (mente) di Anassagora.. Ma si rimane sempre nell’ ambito  di spiegazioni di ordine  cosmologico.

E’ soltanto con PARMENIDE (VI-V sec.) che la domanda originaria (tì estì fysis) subisce una radicale trasformazione. Egli infatti  concentra tutto il suo interesse sull’ estì della fysis, anziché sul tì . Si dice comunemente che Parmenide sia lo scopritore dell’Essere. In realtà  sarebbe molto più esatto  affermare che Parmenide abbia scoperto le condizioni di intelligibilità dell’Essere, o anche  che abbia individuato per primo  l’Essere come oggetto formale del pensiero.

Per Parmenide c’è una sostanziale coincidenza tra
“pensiero” ed “essere”:

- “Per la parola ed il pensiero bisogna che l’essere sia:
solo esso infatti è possibile che sia, e il nulla non è”.

- “La stessa cosa è pensare e il pensiero che è, che senza l’essere in cui è espresso non troverai il pensiero: niente altro infatti è o sarà al di fuori dell’essere, poiché di fatto la Moira lo vincola ad essere un tutto immobile; perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto, convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non essere, e cambiare di luogo e mutare lo splendente colore”..

L’evidente dato che i sensi  ci forniscono – il molteplice divenire della natura  – appare a Parmenide (per effetto dello spostamento di interesse sull’ estì) nient’altro che ingannevole apparenza. Abbandonata perciò  l’ingenua e passiva aderenza “naturalistica” ai dati del reale, Parmenide si avventura sulla difficile via della pura razionalità ( il sentiero del Giorno), pervenendo ad una duplice scoperta:
 1. L’univoca e assoluta esistenza dell’ESSERE;
 2. La contraddittorietà dell’esistenza del NULLA.

Come  abbiamo prima  precisato, la dizione “scoperta dell’Essere” va intesa  nel senso  di scoperta delle condizioni di pensabilità dell’Essere (o: scoperta dell’Essere come oggetto formale del pensiero). Quali sono queste  condizioni? La prima  è la coincidenza tra pensiero ed essere: per il pensiero è necessario che l’ Essere sia. La seconda, strettamente intrecciata e conseguente, è l’impensabilità dell’esistenza del Nulla: “il non-essere non puoi né conoscerlo (è infatti impossibile), né esprimerlo, perciò è necessario che non sia”.

Siamo  qui nel cuore  profondo del modo  di pensare dell’Occidente: la scoperta dei capisaldi logici  della nostra attività  mentale (i principi di identità e di non contraddizione), che sono anche  il fondamento insostituibile della visione metafisica della realtà.
 Parmenide è perciò  il vero fondatore dell’ontologia, che è appunto la scienza che pensa  l’Essere. Sulla scia di questa “scoperta” – ancora balbettante nella sua formulazione, ma pur tuttavia imprescindibile avvio di un
nuovo  cammino – si verrà ad innestare l’intero  processo di sviluppo logico,  metafisico, gnoseologico e linguistico della filosofia dell’ Occidente.

Ma: se è vero che in Parmenide assistiamo al primo  e più importante tentativo filosofico di passare dalla cosmologia all’ontologia, è altrettanto vero che in questa  appena abbozzata visione ontologica del reale permangono gravi residui naturalistici.

Infatti: l’essere parmenideo è connotato come un “tutto pieno”, come una massa  monolitica senza  buchi, impenetrabile ( piena e rotonda, ingenerata, immobile), perennemente identica a se stessa, compiuta ed unica. L’univocità dell’essere parmenideo conduce pertanto alla dissoluzione della molteplicità, all’impossibilità del movimento, alla riduzione di tutti i fenomeni a pura apparenza.
Come  è stato giustamente osservato ( Giovanni REALE), Parmenide “salva l’Essere, ma non i fenomeni” .

Infatti  questa  prima  scoperta “astratta” della nozione di essere  – proprio nella misura  in cui non è ancora completamente “astratta”, ma troppo  legata  al concreto, troppo  ancora naturalistica – finisce  con l’entrare in un insanabile conflitto con la visione del “senso  comune”, saldamente ancorata alla realtà  dei fenomeni, generando sconcerto e rischiando il paradosso (cfr. appunto i celebri  “paradossi” con i quali il discepolo Zenone difese  le tesi del maestro contro  i detrattori).
Nello stesso  tempo, però, questa  magistrale teoria, essendo solidamente congiunta alla scoperta dei primi due fondamentali principi della logica,  costituisce una verità profonda ed irrinunciabile, ponendosi come ineliminabile punto  di riferimento per la successiva speculazione.
Come  sempre avviene nel corso della ricerca  umana, sono tuttavia proprio le
“aporie”, cioè le difficoltà, gli errori  o le incompletezze di una teoria, che determinano il passaggio ad acquisizioni successive, più complete e mature.

Assistiamo a questo  passaggio, come in una straordinaria esemplificazione, nella ripresa platonica dell’intuizione parmenidea.
Platone non può sottrarsi alla suggestione del “venerando e terribile” predecessore ( venerando, per l’autorità imprescindibile della sua dottrina, ma terribile, per le sconcertanti conseguenze cui perviene) ed affronta coraggiosamente tutti i nodi posti dall’ Eleatismo: il rapporto tra Essere e Nulla, tra Uno e Molteplice, tra piano della sensibilità e piano dell’intelligenza. I Dialoghi in cui Platone affronta questa  tematica (il Parmenide appunto ed il Sofista) sono tra i più complessi e di difficile interpretazione dell’intero Corpus, per cui mi guardo bene dall’addentrarmi nella loro problematica, limitandomi a sottolineare due evidenze conclusive:

1. L’ammissione del non-essere come semplice alterità. Il mondo delle Idee, che per Platone rappresenta il mondo nella sua perfetta intelligibilità, è un mondo pluralistico. Le Idee sono, è vero, finalizzate in modo  gerarchico verso un principio incondizionato e assoluto che Platone chiama BENE  ( n.b. Qui bisognerebbe far cenno  alla cosiddetta “dottrina non scritta”  di Platone, che aveva  appunto come oggetto esclusivo la trattazione del Bene e veniva  svolta   in modo  riservato soltanto con i più fidati discepoli), ma – essendo l’una diversa e distinta dall’altra – sono appunto molteplici. Ciascuna Idea, quindi,  non essendo le altre, possiede in qualche modo  l’attributo del non-essere.

2. La nozione di partecipazione (metessi/koinonia). Platone introduce nell’Essere un doppio  movimento: a) il dinamismo mediante il quale le Idee sono in comunicazione fra di loro e, tutte insieme, con il Bene; b) il movimento mediante il quale il mondo sensibile partecipa del mondo intelligibile.

Sarà soltanto con Aristotele che l’analisi dell’Essere si spingerà a profondità definitive per la ricerca  del mondo antico.
Aristotele comprende che la nozione di Essere non è né semplice né univoca. Con Platone si era già fatto un notevole passo  in avanti  rispetto a Parmenide, concependo il non-essere anche  come “diversità” e non solo come un’entità assoluta, ma sia l’esistenza del mondo sensibile sia l’intelligibilità completa del divenire erano rimaste problematiche e comunque non pienamente giustificate da un punto  di vista strettamente razionale (cfr.
il ricorso  platonico al mito, soprattutto il mito della biga alata e quello  del Demiurgo).
Per Aristotele l’Essere ha una molteplicità di significati.
C’è essere  ed essere: l’essere in quanto è, l’essere per cui si è, l’essere che si può essere  (quest’uomo/ la grandezza di quest’uomo/ l’architetto che quest’uomo grande può essere).
Allo stesso  modo  è per il Non-essere: vi è il non-essere puro e semplice (l’Assoluto Nulla, che non c’ è); il non- essere  relativo (il cane non è un uomo, ma è qualcosa); il non-essere potenziale (il neonato non è ancora un adulto, ma può diventarlo).
 In Aristotele rimane irrinunciabile l’acquisizione parmenidea del principio di non contraddizione come legge fondamentale della conoscenza razionale, ma si dissolve totalmente l’univocità dell’ontologia parmenidea che concludeva nella inconcepibilità del divenire. Per Aristotele, il divenire è completamente intellegibile e giustificabile: esso è un movimento dell’essere all’interno dell’Essere, non un passaggio –impossibile – dall’Essere al Nulla e viceversa.

Tra tutti i possibili significati dell’essere spicca, nell’ontologia aristotelica, la coppia  Potenza (dynamis) – Atto (energheia/entelecheia): potenza è l’essere in quanto “può” essere  (il seme rispetto alla pianta/l’uomo ad occhi chiusi  rispetto all’azione del vedere); atto è l’essere nel suo stato di realizzazione finale, l’essere che “è” realmente (la pianta  che abbiamo di fronte/l’uomo che guarda).

Il divenire (kynesis)è il passaggio dalla potenza all’atto. Esso non è contraddittorio per la nostra  intelligenza, perché non è un passaggio dal puro non-essere (che non è, perciò  non diviene) all’essere; bensì il passaggio da un relativo non-essere (cioè l’essere-in- potenza) ad un essere determinato (l’essere nell’atto di essere  ciò che appunto è).

Siamo  arrivati  qui ad un’intuizione fondamentale – che
possiamo ritenere definitiva – circa quel problema che abbiamo definito come una ricerca dell’Essere degli esseri a partire dal dato concreto dell’esistenza della realtà (gli esseri), caratterizzata dall’esperienza fin troppo  ovvia e banale  del mutamento delle cose e della vita stessa.

Da questo  dato così evidente (e che perciò  non può essere così facilmente eluso e messo  tra parentesi, come sembra aver fatto Parmenide) il nostro  spirito  risale, con un vertiginoso colpo di astrazione, al fondamento permanente ed immutabile del tutto (appunto: l’Essere).

In fondo  questo  è il problema fondamentale della filosofia: il rapporto tra l’ Uno ed il Molteplice. Come  i molti (risultanza inconfutabile della nostra  esperienza sensibile del reale) sono in fondo  uno (esigenza insopprimibile della nostra mente  che vuole attingere al “che cosa” della realtà)?
Come  può essere  mantenuta l’assoluta identità dell’Unico Essere senza  sacrificare l’effettiva esistenza dei molti: o viceversa?

Abbiamo anche  visto come in Aristotele questo  problema “uno-molti”sia strettamente connesso al tema del “divenire”. Non si tratta infatti  solo di domandarsi come l’unico  essere possa  fondare i molti senza  perdere la propria identità, senza  sparire od annullarsi in essi; ma anche  di chiedersi come questo  unico essere  possa  far ciò senza necessariamente dover essere  definito come “immobile, immutabile, monolitico” ecc…

B) Il problema ontologico in Aristotele

Aristotele ha individuato, nella sua ricerca, quattro fondamentali gruppi di significato per il termine Essere:

1. L’essere categoriale

2. L’essere come potenza ed atto

3. L’essere come accidente

4. L’essere come verità

a)   L’essere categoriale

Il problema di classificare i differenti generi  di essere  ha sempre preoccupato Aristotele – come del resto aveva preoccupato i suoi predecessori (cfr. per esempio le 10 coppie di contrari di Pitagora o i 5 generi del “Sofista” di Platone). Pertanto egli si è preoccupato di redigere, sulla base della lingua  greca  e della comune esperienza delle cose, una tavola  delle principali proprietà che l’uomo accusa (kategorein: il termine è preso dal linguaggio giuridico del tempo) in tutto ciò che vede e di cui parla.
Nascono così i dieci predicati o attributi o generi dell’essere, noti appunto come CATEGORIE: sostanza (ousia) – qualità ( poiòv) – quantità (posòn) – relazione (pròs tì) – azione (poiein) – passione (paschein) – luogo (pou) – tempo (potè) –avere (echein) – giacere (keisthai).




La prima  categoria – sostanza (ousia) – ha una priorità su tutte le altre ed è fondamentale.

Sostanza è “ciò che è in quanto è”. Come  più tardi dirà il filosofo Spinoza, sostanza è “quod in se est et per se concipitur” . E’ fondamentale, perché tutti gli altri predicamenti si riferiscono sempre alla sostanza come tale. Dirà San Tommaso:

“Substantia est fundamentum et basis omnium aliorum entium”.

Afferma Grenet (cit. in bibliografia, p. 156): “La sostanza è l’essere al quale spetta di esistere in sé e non in un altro; l’accidente (ontologico) è l’essere al quale spetta di esistere in un altro come nel proprio soggetto”.

Si potrebbe allora dire che tutte le altre categorie sono “accidentali”, naturalmente in senso  ontologico, e non in quello  di “casualità fortuita” (cfr. n° 3 della tavola  dei significati dell’Essere secondo Aristotele) di cui parleremo più oltre.

L’Essere quindi,  nel suo senso  più forte, è ousia. Si capisce bene allora perché Aristotele definisca la Metafisica anche  come “teoria  della sostanza”.

Quali  sono i nodi principali di questa  teoria della sostanza in Aristotele?

Essenzialmente due:

a) Che cosa è la “sostanza in generale”?

b) Ci sono sostanze soprasensibili, oltre a quelle sensibili che la comune esperienza ci fa incontrare e conoscere?

Vediamo come Aristotele risponde alla prima questione.
Scrive  G. Reale nella sua Storia della filosofia antica, vol.I


“Che cos’è la sostanza in generale? 1) I Naturalisti
indicano negli “elementi naturali” il principio sostanziale; 2) i Platonici lo indicarono nella “forma”; 3) al senso  comune, invece, sembrerebbe essere  sostanza l’individuo e la cosa concreta, fatti ad un tempo  di forma  e materia. Chi ha ragione? Secondo Aristotele, hanno  ragione ad un tempo tutti e nessuno, nel senso  che queste  risposte, prese singolarmente, sono parziali, ossia unilaterali; nel loro insieme ridanno invece  la verità”.

Perciò  Aristotele articola il discorso sull’essere come sostanza su tre piani, distinti  ma anche  profondamente connessi fra di loro:

MATERIA (hyle): è il “sostrato” di tutte le realtà  sensibili, nel senso  che l’assenza di materia ne vanificherebbe l’esistenza. Scrive  Aristotele nella Fisica  che la materia è “il sostrato primo di ogni cosa, dal quale, come elemento essenziale intimamente costitutivo, deriva qualcosa non solo per accidente”. Naturalmente qui non si parla della materia concreta di cui sono fatti i corpi che noi vediamo e tocchiamo (per Aristotele questa  è la “materia seconda”, che è oggetto delle scienze naturali e non della metafisica), bensì della “materia prima”, oggetto solo del pensiero, non identificabile con alcuna  sostanza corporea determinata, fondamento ontologico comune a tutti i corpi, ma non essa stessa  corpo  od oggetto sensibile. In questo  senso,  la materia prima  è pura spazialità, potenzialità indeterminata, incapace di diventare qualche cosa senza l’intervento determinante di una forma. E’ quindi  esatto definire la “materia prima”  come “sostanza”, ma non in senso  univoco ed assoluto.

FORMA (morphè): è il principio determinativo che attualizza la materia e si pone come il “che cos’è” ( quod quid est degli Scolastici) di ciascuna cosa.

Anche  se Aristotele usa spesso il termine eìdos (proprio di Platone), la sua forma  non è trascendente, ma si pone come costitutivo intrinseco dell’essere, diventando addirittura la principale “causa” dell’esistenza di un quid.
La forma  aristotelica è una forma sostanziale, fondamento essenziale interno di ciascun ente reale, principio proprio dell’essere specifico di ciascuna realtà  e causa  prima  di quel dinamismo che spinge  verso l’autorealizzazione ogni esistenza potenziale. La forma è dunque per Aristotele l’essere nel suo senso più pieno, la sostanza nel suo significato più proprio, l’essenza vera di ogni realtà.

COMPOSTO DI MATERIA E DI FORMA (synolos): tutto ciò che esiste  appare “composto” (questa sarà la traduzione scolastica del termine “sinolo”, che letteralmente significa “tutt’uno”) di materia e di forma.  E’ la risultanza della sostanziale coesistenza e coincidenza di principio materiale e principio formale. La sinolicità è dunque il vero modo  di essere  della sostanza, la sostanza in modo  pieno e assoluto.

Ma allora – se il senso  vero della parola  sostanza è la “sinolicità” – esisterebbero solo sostanze composte di materia e di forma,  di atto e potenza: insomma soltanto sostanze sensibili. Esistono sostanze di altro tipo? Per esempio soprasensibili (del tipo, per intenderci, delle idee platoniche)?

Vediamo come Aristotele risponde alla seconda questione.

Aristotele arriva  a sostenere l’esistenza di sostanze soprasensibili partendo dal movimento (kynesis) e postulando come causa  prima  di questo  un principio assoluto eternamente immobile ed immutabile. Su questa via la sua metafisica sfocia  in una vera e propria “teologia naturale” (è il significato ultimo  della sua ricerca, che finisce  con il ricomprendere al suo interno le altre tre definizioni che egli dà della sua opera:  indagine sulle cause/indagine sull’essere/indagine sulla sostanza: eziologia, ontologia, ousiologia). Ma seguiamo brevemente il suo ragionamento.

La fisica ci mostra in modo  inoppugnabile che quidquid movetur ab alio movetur; ma è altrettanto inoppugnabile che un’infinita catena  causale senza  un cominciamento primo  è impensabile secondo la logica  aristotelica, perché ci introduce in un orizzonte indeterminato, inconoscibile in quanto non riconducibile al principio conoscitivo dello “scire per causas” (Aristotele non accetta la visione mistica e panteistica dell’ eterna catena degli esseri).

Deve esistere perciò  un “primum movens”, un motore che sia non a sua volta effetto  di un movimento prodotto da un’altra realtà, ma causa  prima, eterna  ed immutabile di ogni movimento. Inoltre, tale primo motore, in quanto immobile, deve essere  assolutamente privo di qualsivoglia potenzialità (perché la potenzialità implica un intervento formale per potersi  attualizzare, quindi  un movimento): insomma, un ATTO PURO.

Ora: poiché  la potenza si identifica con la materia e l’atto con la forma,  ne consegue che l’ atto puro è pura forma. L’atto puro è dunque una sostanza soprasensibile, immateriale, che può essere  oggetto solamente di conoscenza intellettuale e non di esperienza sensibile.

E’ così dimostrata – attraverso la via naturale del ragionamento che parte dall’analisi del movimento, delle sue leggi e delle sue cause  – l’esistenza (anzi: la necessità dell’esistenza) della sostanza soprasensibile.

Su questa  solida  premessa Aristotele continua rigorosamente a dipanare la sua catena  di deduzioni, venendo a riconoscere a questa  sostanza soprasensibile i seguenti attributi:

La perfezione : la vita e la natura  di questo  atto puro, privo di ogni potenzialità e totalmente realizzato, sono perfette. L’ entelechia prima è intrinsecamente compiuta, da sempre realizzata, immodificabile : appunto perfetta, e quindi  divina.

La noeticità : l’Atto puro, Dio, è “pensiero di pensiero”(nous noesetos).

L’intelligenza perfetta non può avere  altro oggetto se non la propria stessa  perfezione. Se pensasse ad “altro da sé” non sarebbe perfetta. Dio non può interessarsi o preoccuparsi di ciò che è “meno” di Sé stesso.

L’ unità : è chiaro,  in Aristotele, che Dio è una totalità semplice ed assoluta, indivisibile e senza  parti. Rimane invece  tutt’altro che chiarito il tema dell’ unicità, perché non essendo il suo Atto Puro un “creatore” nel senso  biblico  del termine (per Aristotele la creatività divina  sarebbe una diminuzione, un difetto,  in contrasto con il concetto di perfezione assoluta) rimane come sospeso, non spiegato, irrisolto, il nodo dei rapporti tra Dio e le altre sostanze intelligenti ed eterne  (le 55 intelligenze motrici  che presiedono al movimento delle sfere celesti; l’anima, nel caso che si sciolgano in modo  positivo le ambiguità circa l’immortalità dell’anima contenute nella Psicologia), come con la materia sensibile ed il mondo dei sinoli.

Il finalismo : Dio, con la sua compiuta perfezione, attrae  a sé tutto, ma non in maniera attiva ed intenzionale. Si parla di finalismo passivo, perché il Dio aristotelico può essere solo oggetto di amore, non soggetto che ama (l’amore, come già aveva  detto Platone, implica una mancanza, un desiderio di perfettibilità, quindi  si tratta di un sentimento incongruo per una divinità come quella  aristotelica, perfetta ed assorta nella propria autocontemplazione).

b) L’essere come potenzialità ed attualità

Riprendiamo qui le osservazioni già fatte, a proposito del divenire, sulla distinzione aristotelica tra atto e potenza, collegandole a quelle  altre, sempre già svolte  nel paragrafo precedente, su materia e forma. E’ evidente la stretta aderenza di queste  coppie  di termini  e di concetti:

La Materia è Potenza, nel senso  che la sua caratteristica fondamentale è la “recettività”, il poter diventare, grazie all’intervento della forma, “questo” o “quello”.

La Forma è Atto, nel senso  che solo la forma  dà una determinata attuazione all’essere potenziale, conferendogli quel quid (essenza) che lo fa essere  ciò che in effetti  è. La forma  è il logos della cosa ( ratio rei).

Come  diranno gli Scolastici: id quo res est id quod est, non aliud. O ancora: id secundum quod alicui competit esse.

L’atto rappresenta la perfezione della sostanza: questa  è tale solo nell’atto di essere  ( actus essendi). L’atto ha perciò  una priorità assoluta sulla potenza, anche  se quest’ ultima  – intesa  come materia – è il presupposto dell’atto. Ma la materia è conoscibile come tale ( in senso  proprio, non nel senso  puramente astratto di “materia prima”) solo in relazione all’atto  che la informa ed, informandola, le conferisce l’esistenza attuale. Si deve perciò  dire che l’atto (entelechia) precede ontologicamente la potenza (dynamis) , mentre quest’ ultima precede cronologicamente l’atto.

Classici esempi come quello  dell’ uovo e della gallina, o del seme e della pianta, possono validamente dimostrare questo  assunto.

Ai concetti di potenza ed atto si connette anche  l’altro concetto aristotelico di privazione (stéresis). Essa significa la mancanza – che può essere  temporanea o definitiva (quindi: non esistenza di) – di condizioni o proprietà che fanno  parte dell’ essere-in-potenza e ne vengono ad impedire la perfezione o la realizzazione (es. la cecità).

La privazione non è dunque puro non-essere (negazione dell’essere), ma semplice limitazione o impedimento dell’ actus essendi. In termini  morali  essa viene a coincidere con il male (che, per esempio, S. Agostino definisce come defectus boni).

In Aristotele non c’ è tuttavia alcuna  connotazione morale, per cui la “privazione” è anche  la condizione che consente la modificazione della materia, quindi  la possibilità dinamica per un ente di raggiungere la propria realizzazione.

c) L’essere come “puro accidente”

Questo concetto non ha alcuna  rilevanza ontologica e non
va confuso con i nove ordini  “accidentali” della sostanza (le altre nove categorie). Aristotele ne parla come di un semplice accadimento fortuito e casuale, che non entra mai nella definizione sostanziale di un termine. L’accidente ( tò sunbebekòs) è non sempre né per lo più (mentre la scienza si occupa solo di ciò che è sempre o per lo più). L’accidente si riferisce perciò  ad una condizione del tutto provvisoria e fortuita del sinolo  (per esempio il fatto che ora io possa  essere  accaldato o pallido). La rilevanza di tale definizione non può interessare il piano ontologico dell’essere, ma caso mai quello  storico, empirico o fenomenologico.

d) L’essere come “verità”

Questo modo  dell’essere è studiato dalla logica. La “verità/falsità” di un ente risulta  solo da una “corrispondenza/non corrispondenza” dell’oggetto reale con le proposizioni logiche fondamentali ( adaequatio rei
et intellectus, diranno poi gli Scolastici). C’è una situazione di verità quando la nostra  mente  pensa  le cose (l’essere) come sono in realtà; c’è una situazione di falsità  (almeno potenziale) quando il nostro  pensare è privo di ogni corrispondenza con il reale. E’ chiara  quindi  la precedenza dell’ ontologia sulla logica:  è l’ontologia che descrive la struttura profonda della realtà, l’essere delle cose nella loro
permanente consistenza; la logica  mette  questa  realtà ontologicamente percepita in relazione con i criteri  e le regole  di verità/falsità stabilite dalla nostra  ragione.

C) Il problema dell’essere in san Tommaso

L’affronto del problema dell’essere in san Tommaso (1221-1274) richiederebbe una rigorosa premessa di carattere storico-culturale per chiarire quale sia stato il sostanziale mutamento delle condizioni in cui si esercita il pensiero (in generale, ma in particolare quello  filosofico) verificatosi con l’irruzione del Cristianesimo nell’occidente greco-romano e con la progressiva, crescente ed infine vittoriosa sostituzione della cultura  cristiana alla cultura pagana.

Una messa  a punto  così rigorosa non possiamo ovviamente farla in questa  sede, anche  perché ciò significherebbe fare – sia pure a grandi  linee – la storia della penetrazione del Cristianesimo nel tessuto profondo della società occidentale, del formarsi della nuova  società medievale e delle sue istituzioni storico-culturali e – da un punto  di vista strettamente filosofico – la storia della Patristica greca  e latina e della Scolastica.

Ci limitiamo pertanto ad accennare – a mo’ di premessa generale allo studio  dell’ontologia tomista – a tre importanti questioni. Due sono di carattere storico-culturale (la nascita dell’ Università e la riscoperta dell’ opera
aristotelica), la terza di ordine  filosofico (il rapporto fede- ragione nella filosofia cristiana medievale).

Il carattere “pubblico, aperto e laico” dell’Università medievale.

L’Università, prestigiosa ed insostituibile istituzione scolastica superiore dell’Occidente, nasce  alla fine del XII secolo  (lo Statuto della prima  università, quella  di Bologna, risale al 1158, ma la sua origine  è più antica:  1088).  Prima di allora – fatta eccezione per la famosa schola palatina di Carlo Magno dell’VIII secolo, esperienza per altro assai circoscritta nello spazio  e nel tempo

– erano  esistite solo scuole  monastiche (annesse ai monasteri per formare i novizi  alla lectio divina), episcopali (annesse alle cattedrali per formare il personale addetto ai servizi  amministrativi) e in qualche caso molto limitato anche parrocchiali. Con l’Università assistiamo alla nascita di un’ istituzione pubblica (sia nel senso  che di essa si fanno  carico  i pubblici poteri, laici e/o ecclesiastici, sia nel senso  che la frequenza non è riservata ai soli ecclesiastici e che essa è dotata  di un preciso iter formativo, di un piano sistematico di studi e di un collegio di docenti qualificato e in grado  di fornire  – cosa assolutamente nuova e straordinaria – un titolo di studio legale, non solo ufficialmente riconosciuto ma anche  prestigioso ed assai apprezzato); aperta  (naturalmente in relazione ai tempi, i docenti godono di un’ampia autonomia di ricerca  e di didattica,continuamente e gelosamente difesa  contro  le pretese e l’ingerenza dei poteri  costituiti); e infine laica (nel senso  che, pur se il corpo  docente è prevalentemente formato da religiosi, il suo compito non è quello  di formare degli ecclesiastici, bensì di avviare a professioni “civili”). E’ facile dedurre da queste  premesse storico-culturali il carattere “scientifico e sistematico” che assumerà la filosofia scolastica (appunto: la filosofia insegnata nelle università).

La riscoperta e la diffusione dell’opera aristotelica. Attraverso la mediazione della cultura  araba,  la conoscenza delle opere  di Aristotele (e della Metafisica in particolare) si diffonde nelle università. E’ un’ autentica “rivoluzione”. Le opere  di Aristotele introducono sia nuovi strumenti formali (il metodo della logica  preposizionale) sia nuovi contenuti di ordine  ontologico, antropologico, etico e cosmologico. La filosofia cristiana, sin qui abituata a mutuare i contenuti dalla Rivelazione e tutt’al più da alcune opere  platoniche e neoplatoniche, si trova improvvisamente di fronte  ad un organico sistema filosofico, ad un’armonica e coerente spiegazione razionale dell’uomo e dell’universo del tutto indipendente dalla verità rivelata del Cristianesimo. E’
un vero e proprio choc : o si rigetta  in blocco  questo imponente sistema di
“verità” (e ciò appare francamente inammissibile per degli onesti  ed appassionati ricercatori del vero quali sono i filosofi  scolastici) oppure si cerca di “cristianizzarlo”, nel senso  buono  del termine: cioè si va alla ricerca  delle concordanze, ripensando poi tutto il sistema aristotelico all’interno del patrimonio di verità costituito dalla Rivelazione cristiana. Sarà questa  la via scelta  dal grande Alberto Magno (1206-1280) e dal suo illustre  discepolo San Tommaso d’Aquino (1221-1274).

Ragione e fede. Il rapporto ratio/fides (o anche: scienza/rivelazione; filosofia/
teologia) è il problema fondamentale di tutta la filosofia cristiana medievale (e non solo medievale: si veda l’enciclica Fides et ratio del 1998 nel suo complesso, ma per esempio in IV, 42: “la fede chiede  che il suo oggetto venga  compreso con l’aiuto  della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta”). Impostato dalla Patristica (a partire da san Giustino), inquadrato con grande equilibrio da Sant’Agostino (suo è il famoso credo ut intelligam/intelligo ut credam) e da Sant’Anselmo di Aosta ( fides quarens intellectum), il problema acquista una nuova  e drammatica attualità al tempo  della diffusione dell’aristotelismo. C’è autonomia della ratio? A chi spetta  la priorità nell’atto conoscitivo? Ragione e fede si escludono a vicenda (razionalismo / fideismo) oppure sono complementari? Quale  il ruolo dell’una e dell’altra? Fino a dove può giungere la ricerca  razionale senza  l’apporto della verità rivelata? Quale  è insomma l’ambito della filosofia?...

1) Ragione e fede in San Tommaso

La soluzione tomista del problema del rapporto “ratio/fides” sta tutta nel concetto di filosofia come preambulum fidei e come ancilla theologiae.

San Tommaso è assolutamente convinto dell’autonomia e della specificità della ricerca  razionale ( e la recente riscoperta del pensiero di Aristotele ne costituiva 15

un’ulteriore formidabile conferma). La ragione – e quindi  la filosofia – ha un proprio metodo, una propria specifica configurazione che le consente di inoltrarsi verso la conoscenza, anche  delle cose “ultime”, senza  dover ricorrere ad apporti esterni  o chiedere umilianti “pass”. Ancora una volta il sistema aristotelico ne è la prova convincente: Aristotele ha saputo  indagare correttamente non soltanto sull’uomo e sul mondo, ma anche  su Dio e sulle cose soprasensibili. Su Dio, pur in assenza di una rivelazione e facendo esclusivamente appello alla ragione, ha raggiunto conclusioni assolutamente rispettabili, rigorose, totalmente condivisibili dal punto  di vista logico  e non incompatibili col punto  di vista della fede.

La filosofia, insomma, si appoggia esclusivamente sull’evidenza razionale, sulla forza dei suoi principi e sul rigore  delle proprie argomentazioni: a null’altro si devono le sue conclusioni. Ma ciò che è sorprendente è che tali conclusioni non entrino in conflitto con la verità rivelata. Commenta il Papa a questo  proposito : “La luce della ragione e quella  della fede provengono entrambe da Dio, egli ( cioè: Tommaso, ndr) argomentava: perciò  non possono contraddirsi tra di loro” ( Fides et ratio, IV, 43).

Fatta salva questa  autonomia e questa  specificità della ratio, va comunque aggiunto che la filosofia non ci può dare una verità assoluta e definitiva. Non soltanto perché essa non esaurisce tutto ciò che l’uomo  può conoscere e dire, ma soprattutto perché l’oggetto ultimo  vive nella dimensione del mistero. La filosofia ci “introduce” alla verità totale, ma non è capace di farcela  attingere.

Da qui deriva  la definizione di preambulum fidei (lett. “anticamera della fede”):  la ragione ci conduce in prossimità del vero, nelle immediate vicinanze del mistero divino,  ma non ha il potere  di svelarcelo in tutto il suo splendore.

N.B. Il termine preambulum non ha qui il significato prevalentemente negativo con cui oggi solitamente lo si contrassegna (per esempio di un “cappello” inutile  e superfluo ad un discorso, che può essere  tranquillamente eliminato senza  pregiudizio per la comprensione del testo; in questo  senso  si dice, per esempio, bando ai preamboli, quando si vuole entrare direttamente nel vivo di un discorso). Esso significa invece, in senso  letterale, “ingresso/anticamera”. Se si pensa  alla casa romana, nella quale un solo ingresso dà accesso a tutti gli ambienti interni, ogni significato di inutile  superfluità si dissolve per lasciare invece  spazio  ad un senso  forte di introduzione necessaria, obbligatoria, vincolante per poter entrare nella “casa della verità”.
Così pure il termine ancilla dell’espressione “ancilla Theologiae” (anch’essa usata come metafora del rapporto filosofia/teologia) non va inteso  nel senso  dispregiativo che oggi noi attribuiamo ad esso: se la filosofia fosse soltanto “schiava” della teologia, allora si configurerebbe un inaccettabile ruolo subalterno della ricerca  razionale, ridotta  a poco più di una sterile  esercitazione in vista della produzione del vero sapere, che è quello  teologico. Come l’ ancilla rende  la domina tale (cioè: grande e superiore), così la teologia è il luogo dell’inveramento, del completamento, del definitivo realizzarsi ed esprimersi della tensione conoscitiva della ratio. La “domina” senza “ancilla” non sarebbe più tale: così la teologia, senza l’indispensabile aiuto della filosofia, non sarebbe altro che vano sproloquio.


Per San Tommaso, come del resto per ogni pensatore medievale, il fine di ogni atto conoscitivo è la conoscenza di Dio, perciò  filosofia e teologia, fede e scienza non possono avere  due oggetti  diversi  di conoscenza, ma uno solo: distinti  sono caso mai i campi  ed i metodi, ma c’è comunque un rapporto organico, ordinato e gerarchico fra le due modalità. Non è dunque possibile fare teologia senza  una corretta impostazione filosofica, ma una filosofia che non si traguardi e non si completi nella ricerca teologica tradisce la sua natura  e si preclude il raggiungimento della sua finalità  ultima,  che è la ricerca della verità.
Come  afferma il Papa all’inizio della sua enciclica: ” La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”.

Viene  in mente  a questo  punto  quello  stupendo passo  del Fedone di Platone, in cui il grande filosofo greco  riconosce l’insuperabile limite di una ricerca  puramente razionale ed accenna, con desiderio e nostalgia, ad una possibile rivelazione che sciolga ogni dubbio: “Perché, insomma, trattandosi di tali argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la soluzione; o trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile, accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore ed il meno confutabile e, lasciandosi trasportare da questo come da una zattera, attraversare così, a proprio rischio, il mare della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi ad una divina rivelazione” (cap. XXXV).

2) La nozione di essere in san Tommaso

Alla radice  dell’ontologia tomista sta la distinzione ed il chiarimento concettuale e terminologico di ESSENZA, ENTE,  ESISTENZA. Con questo  fondamentale chiarimento san Tommaso, fin dalla sua prima  opera  giovanile – il De ente et essentia che risale al periodo del suo insegnamento parigino (1252-1259) – pone le solide  basi del suo futuro  edificio metafisico e teologico.

ESISTENZA: questa  è semplicemente e nient’  altro che la comune realtà  di cui tutti abbiamo esperienza. Di essa non può darsi una definizione concettuale, ma solo una descrizione, con l’ausilio dei dati che il nostro  apparato sensoriale ci fornisce di volta in volta. L’esistenza è un aliquid che esiste  extra mentem, extra causas, extra nihilum. Essa è la risposta positiva alla domanda: “c’è qualcosa” ? ( an sit ); ma non ancora alla domanda: “che cos’è”? ( quid sit ).

ENTE: è ciò che esiste  nella forma  determinata di un quid, è un “qualche cosa”. L’esistenza dell’Ente può essere  di due tipi: a) logica  (cioè solo mentale, concettuale, in mente); b) reale (realmente esistente, extra mentem).

L’ ente logico è tutto ciò che può essere  pensato, ma non necessariamente esiste al di fuori della nostra mente. Esso è frutto della nostra  capacità di astrazione, ma non necessariamente esiste  nel modo  stesso  in cui è pensato (per esempio: la cecità  è un ente logico,  ma di esistente ci sono soltanto i ciechi).
L’ ente reale invece  è tutto ciò che esiste  fuori della nostra mente  e di cui noi perciò  predichiamo l’esistenza.

ESSENZA: è l’ ousia in senso  aristotelico (il quod quid erat esse degli Scolastici), l’insieme delle note fondamentali, delle caratteristiche sostanziali per cui un ente si distingue da ogni altro. Essa è la risposta positiva alla domanda: “che cos’è”? ( quid sit).

Fondamento dell’ontologia tomista è la distinzione reale tra essenza ed esistenza. In tutte le creature finite, gli enti reali ( entia quae sunt), distinguiamo l’essenza ( quid sit, cioè l’ousia: pura potenza, attitudine ad esistere, ma non necessità di esistenza), dall’ esistenza ( actus essendi, cioè il vero e proprio atto di essere, che chiamiamo semplicemente l’ “esserci “ di fatto). L’essere è perciò  un atto, che rende  concreta e reale, veramente esistente, un’ essenza che di per sé è puro “poter essere”. La metafisica tomista è pertanto, in senso  forte, una metafisica dell’essere, e non una metafisica delle essenze. Anche  il Papa, nella enciclica più volte citata, sottolinea questo  aspetto: “La sua è veramente la filosofia dell’essere e non del semplice apparire” (IV, 44).

Distinzione però non significa separazione. Essere ed essenza non sono pensabili separatamente, ma stanno  in relazione organica e dinamica come la potenza e l’atto della metafisica aristotelica. L’ontologia tomista è perciò una dottrina del concreto e non una filosofia dell’astratto.

2) La perfezione come “actus essendi”

Scrive  Battista MONDIN, nella sua interessante opera  su san Tommaso ( Il sistema filosofico di Tommaso d’Aquino, Milano, Massimo, 1985):  “L’aspetto più interessante ed originale della concezione tomistica della verità riguarda l’attenzione che vi viene riservata all’essere. E questo è in perfetta sintonia con la sua filosofia che è eminentemente filosofia dell’essere. L’essere è infatti per Tommaso la perfezione suprema, fondamentale, massima, quella che permea tutte le cose conferendo loro consistenza e realtà; per cui ogni cosa è tale in forza della sua partecipazione all’essere ed una cosa è tanto più perfetta quanto maggiore è il suo grado di partecipazione all’essere” (op. cit., pp. 47-48).
San Tommaso collega quindi  la nozione di perfezione con quella  di actus essendi. La potenza è imperfezione, solo l’atto è perfetto. Ciascun ente realizza la propria perfezione anzitutto esistendo: perciò  l’ente reale è infinitamente più perfetto dell’ente logico  perché è “in atto”, cioè esiste. L’essere è inter omnia perfectissimum. C’è naturalmente una gerarchia di perfezione, legata  al grado di attualità/potenzialità presente in ciascun ente.
Siamo  ancora, se si vuole, all’interno del ragionamento aristotelico che, attraverso la concatenazione di Potenza ed atto, aveva  guadagnato il concetto di “entelechia prima”, di Atto Puro. Ma San Tommaso non si limita a relegare l’idea di perfezione in questa  astratta nozione di atto puro. Scrive  ancora Mondin, strenuo difensore della originalità del pensiero tomista, che San Tommaso non è “un semplice ripetitore e neppure solo un continuatore di Aristotele, bensì l’iniziatore di un nuovo  sistema filosofico, fondato su una base assolutamente nuova, sconosciuta allo stesso  Aristotele, la base costituita dalla perfezione dell’essere, perfezione assoluta, radicale, nucleo e fondamento di ogni altra perfezione” (p. 21). E ancora: “Tommaso è un pensatore originale, che ha fatto la grande e originale scoperta che, a livello  ontologico, la perfezione massima è la perfezione dell’essere e che qualsiasi altra perfezione è dotata  di realtà  soltanto nella misura  in cui è partecipe della perfezione dell’essere” (p.21). Su questa  base – la perfezione dell’essere in quanto tale – san Tommaso (riprendo liberamente dal testo di Mondin a pag. 62) innalza il suo possente edificio metafisico, le cui strutture portanti sono i concetti di “essenza ed esistenza”, che in tutte le cose osservabili sono nettamente distinti l’uno dall’altro. Essenza ed esistenza convergono però necessariamente verso un punto  d’incontro, nel quale si identificano. Questo punto  d’incontro, “pinnacolo dell’edificio”, per il credente Tommaso è l’essere stesso  ( Esse ipsum”), cioè Dio. Continua Mondin: “In Lui risiede  la pienezza della perfezione dell’essere e con essa la pienezza di ogni altra perfezione. Da Lui discende ogni sostanza, ogni virtù e ogni azione. Dio, causa  prima  e totale di ogni ente, comunica ai suoi effetti  realtà, verità, bontà, bellezza, valore;  conferisce sostanza, causalità e attività; li fa simili  a se stesso  e infonde nel loro intimo un’ansia di far ritorno  alla sorgente da cui sono usciti” (p.62).

Citiamo qualche espressione di Tommaso:

“Esiste un essere massimale, e lo chiamiamo Dio”

“Nel modo più vero e prima di tutto chiamiamo ente Colui il cui essere non è ricevuto, ma sussiste di per sé”

“Di tutti i nomi che si attribuiscono a Dio il primo è COLUI CHE E’, perché comprendendo tutto in se stesso possiede l’essere medesimo, come una specie di oceano infinito e senza limite”.

Insomma: laddove Aristotele direbbe che tutto ciò che è e che noi chiamiamo ente esiste  ed è intelligibile per il suo rapporto con la propria ousia, la sostanza; san Tommaso invece  afferma che tutto ciò che è esiste  per il suo rapporto di dipendenza dall’ Esse ipsum, Dio.

Ecco un altro fondamentale tocco di originalità: il rapporto ente-Essere non è più un semplice rapporto di inerenza (come  quello  dell’accidente alla sostanza cui si riferisce), bensì un rapporto di dipendenza causale, per il quale ogni ente (potenziale) riceve  l’essere reale da un Creatore che glielo conferisce.

Diciamo perciò:  Dio dà l’essere, l’ente lo riceve; DIO E’ L’ ESSERE, L’ ENTE
HA L’ESSERE. In Dio essenza ed esistenza coincidono, nell’ente mai. L’esistenza dell’ente è caratterizzata dalla non-necessità ( Contingenza), quella  di Dio dalla necessità ( Sussistenza).

Ma facendo questi  discorsi abbiamo messo  in pratica (senza  nominarlo e definirlo) il nucleo  metodologico più importante della metafisica tomista: il principio dell’ ANALOGIA.

3) La dottrina dell’ Analogia


Prendendo a prestito una parola  greca  – appunto
ANALOGIA, che significa “somiglianza di rapporti” – San Tommaso formula la sua originale dottrina dell’intellegibilità dell’Essere.

Dunque: se l’ente ha l’essere, mentre Dio è l’Essere stesso, non si può parlare di identità tra Dio e le creature, tra l’essere di Dio e l’essere delle cose del mondo. Il significato del termine essere  non può quindi  esser univoco. Dice Tommaso:
“Impossibile est aliquid univoce praedicari de creatura et de Deo” .

N.B. : osserviamo per inciso  come quest’affermazione si collochi agli antipodi di quella  parmenidea, per cui l’essere è UNICO, in perfetta identità con tutto ciò che esiste.

Ma, tornando a Tommaso, se è vero che non c’è perfetta identità tra l’essere di Dio e quello  delle creature, è altrettanto vero che non si può parlare di equivocità del termine, cioè di significati completamente diversi  per i due termini. Infatti, come insegna la Rivelazione, le creature (appunto in quanto “create”, cioè fatte esistere dal Nulla) portano in sé l’impronta del Creatore (cfr. l’idea dell’uomo fatto a “immagine e somiglianza” di Dio).

Ma allora come si configura questo  rapporto, che non è né univoco, né equivoco?

Appunto come un rapporto di Analogia, cioè un rapporto di somiglianza e dissomiglianza insieme, di corretta proporzionalità tra termini  che, pur essendo tra di loro diversi, hanno  in comune appunto l’essere. Ciò che si predica delle creature può quindi  essere  predicato anche di Dio, e viceversa, purchè si facciano, come si dice nel linguaggio popolare le “debite proporzioni”.

Qui filosofia e teologia, fides e ratio, vengono ad incrociarsi ed insieme possono contribuire alla ricerca della verità su Dio, l’uomo  e il mondo. Quello  che attraverso la ragione naturale (e quindi  la filosofia e tutte le altre scienze) veniamo man mano  a scoprire circa l’uomo  e la realtà  possiamo, in un certo senso  ed in maniera analogica, predicarlo anche  per Dio; e viceversa, quello che attraverso la fede (e quindi  l’intelligenza della fede esercitata dalla teologia) conosciamo di Dio Padre  e Creatore, Essere Supremo e divino,  possiamo utilizzarlo ai fini di una più approfondita conoscenza della vera natura  e del significato dell’uomo e del mondo.

4) La nozione di partecipazione

Abbiamo già visto come la nozione di “partecipazione” fosse un caposaldo della dottrina platonica delle idee: le idee comunicano tra di loro e, tutte insieme, con la suprema idea di Bene; inoltre  il mondo sensibile partecipa
del mondo ideale,  in quanto le cose, la natura, sono “copie” delle idee. E’ probabilmente attraverso la mediazione del Neoplatonismo e dell’ Agostinismo che la nozione di partecipazione perviene a san Tommaso, il quale la fonde con i motivi  aristotelici dandole un nuovo  ed originale rilievo.
Si tratta, ancora una volta, di rispondere al problema fondamentale della metafisica: il rapporto UNO-MOLTI. Ma san Tommaso, a differenza dei suoi predecessori greci, dispone di un formidabile concetto metafisico fornitogli dalla Rivelazione: l’idea di creazione.

Per san Tommaso, tutto ciò che esiste  è fondato, radicato in Dio, Essere Autosussistente, Assoluto ed Infinito, che reca in sé, unitariamente e simultaneamente, tutto ciò che appare diversificato e distinto nel grande panorama del creato. E’l’intuizione resa vertigine poetica dal genio di Dante:  Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna / sustanzia ed accidente, e lor costume / tutti con flati insieme per tal modo / che ciò ch’io dico è un semplice lume.
( PARADISO, XXXIII, 85-90)

Nella visione cristiana gli enti finiti non si rapportano al loro fondamento assoluto nè secondo le modalità del panteismo, comune a molte dottrine filosofiche e religiose (i molti sono semplici “modi”  di esistenza dell’ Uno, sue particolari ma sostanzialmente indistinte determinazioni), né secondo quelle  dell’emanazionismo, dottrina propria della filosofia neoplatonica (i molti fuoriescono dall’Uno eternamente, in un flusso  continuo senza  finalità  e senza rapporti di dipendenza, come acqua  che sgorga da una sorgente o luce da una fonte luminosa), bensì secondo il rapporto Creatore/creatura.

Tale rapporto può configurarsi come il rapporto potenza/atto: la creatura riceve  l’esistenza (materiale e spirituale) dallo stesso  Essere (che è Causa  incausata e primo  motore), e rimane in stretto  rapporto con lo stesso, partecipando delle sue caratteristiche in modo proporzionale al suo grado  di perfezione.

In sintesi: solo Dio, Atto puro ed infinito, Ente che è l’Essere, è autosussitente.

Attraverso un’iniziativa libera e gratuita, che rimane per noi misteriosa ed inattingibile, Dio pone contemporaneamente in ogni ente la potenza di essere  (materia) e l’attualità che gli compete (forma), determinandone l’esistenza e la fuoriuscita dal nulla. Ogni ente poi non rimane “tagliato fuori”, estraneo ed indipendente dalla vita di Dio, ma permane innestato in essa con un rapporto di autentica comunione (figliolanza/fraternità).

5) I TRASCENDENTALI: uno, vero, bene

Partecipare all’essere significa anche  partecipare – s’intende sempre in forma  analogica, proporzionale – dei connotati fondamentali, delle determinazioni profonde dell’Essere stesso. Nel linguaggio aristotelico-scolastico queste  connotazioni si chiamano: i trascendentali. Il termine sta ad indicare qualche cosa che accompagna inseparabilmente una certa essenza, “trascendendo” ogni particolarità. Secondo la maggior parte degli autori  I trascendentali in san Tommaso sono 3 (unità  / verità /bontà), ma altri vi aggiungono anche  la realtà e la bellezza.

UNITA’ (omne ens est unum). L’unità  è la prima  e più importante proprietà essenziale dell’essere. Dire che l’essere è uno, significa dire che non è diviso  (unità  reale) e non è contraddittorio (unità  logica), ma è intrinsecamente se stesso. L’unità  dipende dal grado  di essere  che si possiede, nel senso  che quanto maggiore è il grado  di essere  che si possiede, tanto maggiore è l’unità.

Naturalmente è vero anche  il contrario: ma la filosofia tomista rimane una filosofia dell’Essere, in cui l’unità  è una proprietà essenziale, ma non il fondamento ultimo  (nel Neoplatonismo, invece, il divino  è l’Uno, mentre l’essere è un grado  ipostatico dell’Uno) che è l’ esse ipsum. L’unità  di Dio è assoluta, semplice, totale, in quanto piena coincidenza di essenza ed esistenza; mentre l’unità  dell’ente è sempre un’unità composta (essenza+esistenza). Va precisato che questa  unità trascendentale ha un significato esclusivamente metafisico e non numerico (aspetto quantitativo che si riferisce esclusivamente agli enti corporei): perciò  il Dio dei cristiani può essere  tranquillamente e non contraddittoriamente “Uno e Trino”.

VERITA’ (omne ens est verum). Ogni ente in quanto tale è intellegibile, e può essere  oggetto della nostra  conoscenza razionale, in quanto possiede, proporzionalmente al proprio essere  , un certo grado  di oggettiva verità. L’ esse ipsum è la Verità  assoluta e totale, perciò  costituisce l’oggetto più adeguato della nostra  capacità conoscitiva, che cerca appunto la verità di ogni cosa. Se il vero è una proprietà dell’essere, la ricerca  della verità non può essere una questione solo logica (come  in Aristotele), ma diventa ontologica. Ciò vuol dire che il problema della verità non riguarda soltanto il rapporto tra il nostro  intelletto e la realtà ( adaequatio intellectus nostri ad rem), ma anche  il modo in cui quest’ultima si riferisce oggettivamente all’essere divino  ( adaequatio rei ad intellectum Dei). Scrive GRENET : “Poiché il pensiero ha come oggetto formale l’essere, ed ogni essere  è, in quanto essere, oggetto di pensiero, il VERO  è detto dalla mente  solo in base al suo rapporto con l’essere, e dell’essere solo in quanto la mente ha rapporto con l’essere” ( op.cit. , p. 246).

Insomma: anche  la verità (come  già l’unità  ontologica) dipende dal grado  di essere  che ciascun ente possiede. Dio, che è Sommo Essere, è perciò somma verità, sia in senso  ontologico che logico.  Tutti gli altri enti sono più o meno  razionali e più o meno  intrinsecamente veri (corrispondenti al modello divino)  a seconda del grado  di partecipazione all’essere.

BONTA’ (omne ens est bonum). Scrive  Tommaso : “ Dio ama tutti gli esseri esistenti, perché tutto ciò che esiste in quanto esiste è buono ; infatti l’essere di ciascuna cosa è un bene, come è un bene del resto ogni sua perfezione. Ora la volontà di Dio è causa di tutte le cose e per conseguenza ogni ente ha tanto di essere e di bene nella misura che è oggetto della volontà di Dio. Dunque ad ogni essere esistente Dio vuole bene. Perciò, siccome amare vuol dire volere ad uno del bene, è evidente che Dio ama tutte le cose esistenti. Dio, però, non ama come noi. La nostra volontà infatti non causa il bene che si trova nelle cose; al contrario è mossa da esso come dal proprio oggetto; e quindi il nostro amore con il quale noi vogliamo del bene a qualcuno, non è causa della bontà di costui, chè anzi la di lui bontà, vera o supposta, provoca l’amore che ci spinge a volere che gli sia mantenuto il bene che possiede e acquisti quello che non ha, e ci adoperiamo a tale scopo. L’ amore di Dio invece infonde e crea la bontà delle cose” (S. theolog., I, 20, 2).

Il bene è l’essere visto nella sua proporzionalità al desiderio, cioè alla tendenza alla propria perfezione che è insita in ogni ente. Bene ed essere  coincidono: infatti  se la perfezione per un ente è il suo “actus  essendi”, la sua entelechia, sarà proprio questo  actus essendi, in quanto télos dell’ente, il suo bene. Ogni cosa è buona, insomma, in quanto è; ed è tanto più o tanto meno  buona  in proporzione al suo grado  di essere. Ma – in più rispetto alla semplice idea di essere  – l’idea di bene esprime e sottolinea il tema del “desiderio”, della “appetibilità”, della tensione di ogni creatura verso la propria perfezione.

Dio è Sommo Bene, Assoluta Bontà.  Solo Dio è “essenzialmente” buono; e solo Dio è causa  prima, efficiente e finale di ogni bontà. Tutte le creature,
esistendo, partecipano di questa  divina  bontà: tutto ciò che esiste,  dunque, in se stesso  e nell’insieme, è buono, perché possiede, in proporzione al proprio essere, un certo grado  di perfezione e di bene, in analogia con la
bontà  somma di Dio. La metafisica tomista è una metafisica OTTIMISTICA. E non solo perché tutte le cose partecipano della divina  bontà  per il solo fatto che esistono; ma anche  perché il desiderio di perfezione che è insito in ogni creatura non è un appello vano ed inutile,  una tensione velleitaria ed illusoria: Dio, somma perfezione, comunica la propria bontà  e si pone come il bene supremo e finale per ogni ente.

La ragionevole speranza di perfezione da parte dell’uomo s’incontra – nel mistero della partecipazione alla vita divina – con la bontà  liberamente e gratuitamente effusa  da Dio. Il Dio cristiano, a differenza di quello  aristotelico, è un Dio che ama, che ha creato  tutto per amore, che crea le cose amando e, amandole, le fa esistere ed essere  buone.L’uomo si affeziona agli altri enti e li desidera in quanto buoni, ma, amandoli, trascende se stesso  e tutte le cose, collocandosi all’interno stesso  del mistero dell’ amore divino.  San Tommaso afferma, nel suo De veritate : “Tutti gli esseri conoscenti conoscono implicitamente Dio in ogni cosa conosciuta”. Noi potremmo aggiungere anche che, amando in modo  giusto  ed onesto  tutte le cose, si ama implicitamente Dio.

6) La questione del “bello”

Abbiamo detto che alcuni  autori  includono tra i trascendentali di Tommaso anche  la bellezza. In realtà Tommaso non ne parla, ma la scelta  degli interpreti di cui sopra  non è del tutto arbitraria. Basta  intendersi! Tommaso infatti  non elenca  il bello tra gli altri trascendentali per la semplice ragione che per lui (come  del resto per tutta la cultura  medievale) il bello si identifica con il bene: la bellezza è un elemento intrinseco della perfezione, un costitutivo della forma.

La perfezione dell’ actus essendi include sostanzialmente la bellezza, ma questa  risulta  e risplende solo nell’atto conoscitivo. La forma  di un essere, in quanto realizzata nella sua perfezione attuale  , è il bene di un ente; in quanto riconosciuta ed apprezzata dal soggetto conoscente è il bello di un ente. Dice Tommaso: “Il bello riguarda la facoltà conoscitiva: belle sono infatti quelle cose che viste destano piacere (pulchra sunt quae visa placent)”.

Il bello è dunque come il manifestarsi della interiore unità della forma di un ente (livello  ontologico) nella esteriorità sensibile (livello  fenomenologico). Questa manifestazione, secondo Tommaso, esige tre condizioni: “Per la bellezza si richiedono tre doti. In primo luogo integrità e perfezione: poiché le cose incomplete, proprio in quanto tali, sono deformi. Quindi si richiede debita proporzione o armonia tra le parti. Finalmente chiarezza e splendore: difatti diciamo belle le cose dai colori nitidi e splendenti” (S. theolog., I, 39, 8, c).

Integrità e perfezione – debita proporzione fra le parti – chiarezza e splendore:  queste  sono le caratteristiche dell’esperienza estetica secondo Tommaso. Si tratta, come si vede, di un ideale  estetico ancora legato  alla visione classica del bello: la bellezza è una proprietà oggettiva dell’essere, che scaturisce sì nell’esperienza sensibile e nel giudizio particolare del soggetto conoscente, ma non ha la sua radice  nel bisogno soggettivo del singolo. Secondo la celebre definizione del maestro di Tommaso, Alberto Magno, la bellezza è: Splendor Formae. Il bello è ontologico, è proprietà fondamentale dell’essere, è un trascendentale che si accompagna inseparabilmente all’ actus essendi, secondo le gradazioni e le sfumature proprie della gerarchia dell’essere.

N.B. Facciamo qui un piccolo accenno all’estetica kantiana per avere  almeno un’idea sommaria del procedimento che ha portato l’estetica moderna a rifiutare ogni fondamento ontologico per radicarsi esclusivamente nella coscienza soggettiva.

Per Kant il bello non è una proprietà ontologica del reale, ma un “giudizio” che scaturisce dal rapporto tra il soggetto e l’oggetto. In particolare, il giudizio estetico (che è un giudizio riflettente e non un giudizio determinante; quindi privo di ogni valore  conoscitivo) avrebbe l’effetto di produrre una sorta di armonia tra natura e libertà (termini tra loro antitetici), tra la conoscenza e la volontà, al solo fine di un piacere soggettivo, di una delectatio. L’estetica kantiana non ha una finalità  etica, ma si propone esclusivamente di garantire al soggetto un godimento spirituale ed un’interiore elevazione. E’ una sorta di gioco elegante, nobile  e raffinato, che non ha tuttavia tra i suoi fini quello  di introdurci più a fondo  nella realtà  e di farci conoscere la verità ultima  delle cose (e quindi  l’Esse  ipsum che le fonda).

7) Le principali obiezioni dei contemporanei ai trascendentali Raccogliamo in rapidissima sintesi  il contenuto delle principali obiezioni che il pensiero moderno e contemporaneo ha indirizzato alla dottrina ontologica dei trascendentali dell’essere.

La negazione dell’unità ontologica. L’essere non è Uno – non solo logicamente, come vuole per esempio la dialettica hegeliana degli opposti, ma anche  storicamente, come afferma per esempio la dialettica marxiana – ma è frammentato in una pluralità di esseri,  che sono “differenti” ed irriducibili tra di loro. Così è per esempio per l’ esistenzialismo, per il quale esistono soltanto i molti soggetti, i diversi  “io”, ciascuno a sé stante,  incomunicabili fra di loro; oppure esistono come delle “zone” assolutamente eterogenee di essere  (cfr.

Sartre, che oppone irriducibilmente un in-sè materiale ad un per-sè  coscienziale, rinunciando definitivamente ad ogni sintesi  del tipo di quella  hegeliana). Fa eccezione Heiddeger, per il quale c’è una sorta di riapparizione
dell’essere come orizzonte comune di tutti gli enti, ma il senso  di questa  riapparizione è subito  limitato dal concetto di differenza ontologica, con cui si stabilisce “il non tra ente ed essere” e si sancisce l’impossibilità per ogni ente di attingere l’essere.

La negazione della verità ontologica. Si parte dagli estremi dell’assurdismo (Sartre/Camus) e dello scetticismo (Rensi) per arrivare alla verità intesa  solo come proposizione scientifica verificabile (positivismo/neopositivismo) o come utilità personale e/o sociale (pragmatismo/utilitarismo).

La negazione del bene ontologico. Si identifica il bene con l’utile (utilitarismo), con ciò che è “conveniente” in una determinata situazione (relativismo/situazionismo). Comunque si afferma che il bene non è proprio dell’essere ma della capacità valutativa della coscienza. Nel migliore dei casi rimane un ideale,  una tensione continua ed un’aspirazione irrealizzabile della volontà dell’io  o del collettivo sociale.

La negazione del bello ontologico. Già nella breve esemplificazione sull’estetica kantiana abbiamo visto la riduzione del bello ontologico ad attività  armonizzatrice della coscienza soggettiva. Il bello non è più una proprietà oggettiva dell’essere, ma una condizione soggettiva. Se anche  si sfugge  alla arbitrarietà più bieca (bello è ciò che piace),  si rimane comunque nell’ambito di una criteriologia che ha sede nella coscienza e non nell’essere. L’estetica crociana ha il doppio  merito  di restituire all’estetica un valore  conoscitivo e di tentarne una fondazione oggettiva, pur in una piena autonomia dalle altre attività  spirituali: ma si pone contro  ogni radicamento ontologico dell’idea di bello e ne esclude ogni valenza di tipo etico.








CONCLUSIONI

I limiti propri  del corso mi costringono a mettere qui la parola  fine. Mi limito perciò  a segnalare molto succintamente almeno tre tornanti fondamentali che uneventuale ricerca  di approfondimento del tema trattato dovrebbe assolutamente prendere in considerazione.

La crisi della metafisica in Kant. Kant sancisce l’impossibilità di una conoscenza scientifico-razionale dellessere e afferma la conseguente riduzione della metafisica ad aspirazione interiore del soggetto. La trascendentalità non è una proprietà dellessere, ma una struttura formale del soggetto conoscente.

Hegel: il confinamento dellontologia nella logica. L’idea di essere  è l’idea più elementare e più povera di determinazioni che la nostra  mente  possa  concepire. Lontologia è dunque il principio della logica,  ma in questultima lontologia subito  si dissolve, perché lessere pensato nella sua completa astrattezza, privo di ogni determinazione particolare, è identico al nulla, e perciò svanisce subito,  lasciando tutto lo spazio  al divenire, che è sintesi  di essere  e non essere. Il concetto assoluto non è la Realtà, ma la Ragione: quella  che noi chiamiamo comunemente realtà  non è altro che un momento transeunte del cammino di autorealizzazione della ragione come Spirito  Assoluto.
Lesistenzialismo fenomenologico. Lessere è presente alla coscienza come suo oggetto intenzionale (Husserl), oppure si rivela nel Dasein, lesser-ci (Heiddeger), o ancora appare in entrambi (Hartmann): ma resta comunque al di là sia del pensiero, sia dellente. Heiddeger introduce il concetto di differenza ontological per sostenere che lessere non è definibile con le categorie proprie del pensiero razionale, perché manca  degli elementi che costituiscono la possibilità stessa  della definizione (genere prossimo/differenza specifica), ponendosi come puro trascendimento; non è neppure riconducibile ad ente (neppure al più alto della possibile scala di enti) perché non gli si possono attribuire i predicati ontici che permettono l’individuazione dellente.

Perchè si rifiuta la metafisica? Le principali ragioni del rifiuto.

Nel bel libro di Adriano Alessi , Metafisica (LAS, Roma,1992) si trova una eccellente esposizione sintetica delle principali obiezioni nei confronti della validità della metafisica (pag.15  e segg.).

- Anzitutto se ne contesta la validità teoretica. Paradigmatica, per la sua radicalità, è la posizione di Nietzsche, che accusa la metafisica di essere  nientaltro che una “menzogna (come  per altro la religione e la morale). Si tratta di nientaltro che di un lunghissimo errore, imperniato sul dualismo essere- divenire, verità-menzogna, mondo vero-mondo delle apparenze e sullastratta e dogmatica asserzione che un solo elemento di questa  polarità (il vero, il bene, il fondamento, la cosa in sé) è vero, valido  e reale. In verità lessere è una vuota finzione. Il mondo apparente è lunico  mondo; il vero mondo è solo un aggiunta mendace ( Crepuscolo degli idoli. Cfr. anche,  nella stessa  opera,  laforisma intitolato: Come il mondo vero finì per diventare favola).

- Altre posizioni contestano la portata esistenziale del pensiero metafisico, accusato di disumanità e di violenza. Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ad esempio, i sostenitori del cosiddettopensiero debole, criticano la metafisica come ideologia legata  all’insicurezza e al dominio che da essa deriva , ricordando che il pensiero della verità non è il pensiero che fonda, come pensa  la metafisica, anche  nella sua versione kantiana; ben quello che, esibendo la caducità e la mortalità proprio come ciò che fa lessere, opera  uno sfondamento. E continuano affermando che oggnon è più tempo  di principi superiori, di fini ultimi, di verità definitive; che l’idea  di sistema e anche  solo quella  di definizione diventano impraticabili, non convenienti, concludendo che non è possibile librarsi in volo e liberamente spaziare come un uccello nellaria: forse lunica  alternativa è imparare a strisciare imitando il serpente, poiché  solo aderendo alla terra avremo una possibilità di sollevarci soprdi essa (cfr. Il pensiero debole, a cura di G.Vattimo e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano, 1983).


- Cè infine una critica  che proviene da ambienti fideistici che mettin discussione la valenza religiosa del pensiero metafisico. Sulla scia di Lutero, ad esempio, il teologo Karl Barth sostiene che ogni ricerca  che pretenda di fondare razionalmente i preambula fidei è palesemente
empia,  in quanto pretende di far dipendere la scelta  di fede da qualcosa di diverso dalla semplice accoglienza della parola  di Dio.

Ma in modancora più articolato è possibile raggruppare le obiezioni alla metafisica secondo questo quadruplice schema.

A) Obiezioni che nascono dal carattere illusorio o problematico del conoscere.

A questo  gruppo appartengono sia le antiche posizioni della sofistica e dello scetticismo, che ritengono impossibile pervenire ad una qualunque forma  di certezza
o di verità razionale, sia le più aggiornate posizioni del relativismo e del problematicismo. Il primproclama l’impossibilità di pervenire a verità assolute, universalmente valide,  in quanto ogni conoscenza sarebbe
inesorabilmente legata  a condizionamenti di ordine culturale, spaziale e temporale ed ogni affermazione teoretica è solo espressione di una cultura  determinata e storicamente definita.

Insomma: ciò che ieri appariva assolutamente certo, oggi risulta  inevitabilmente insufficiente ed aleatorio; ciò che alcuni  ammettono come assoluta verità è negato da altri come illusorio od ipotetico. Quanto al problematicismo, esso afferma che il contenuto del sapere e della ricerca non è un vero, ma un problema. Il pensiero non può pertanto rimanere vincolato alloggettività del reale, ma deve esprimersi come infinita  libertà,  scevro  da ogni predeterminazione o preconcetto, costruendo semmai una sistematica aperta e progressiva del sapere ( Banfi). La filosofia non sarebbe altro che una continua ed insoddisfatta aspirazione alla filosofia (Spirito).

B) Obiezioni in nome del valore e della natura dellesperienza.

Lesperienza umana è, per sua natura, limitata, particolare, confinata irrimediabilmente al campo  della realtà  sensibile. I nostri  sensi  sono invalicabili: non possiamo perciò  avere alcuna  conoscenza di ciò che starebbe oltre o al di sopra  di essi. Questo è il nocciolo della tesi empirista, che ha i suoi campioni in Bacone, Hobbes, Locke, Hume, Stuart Mill. Il positivismo, iniziato da August Comte e continuato da Spencer in Inghilterra, da Ardigò in Italia e da Haeckel in Germania, ribadisce questi  principi e riconosce validità ai soli dati verificabili (appunto ciò che è posto, positivum). Lunica forma  di conoscenza valida  è perciò  la scienza, che si attiene  solo ai fatti, ne studia  le cause  e ne prevede gli sviluppi.La metafisica è assurda ed insostenibile, sapere fittizio  ed illusorio.

Anche  per il neopositivismo ( Carnap, Russell, Neurath, Schlick, Ayer) solo la scienza ha valore  conoscitivo, mentre la metafisica è semplicemente insensata, in quanto costituita da proposizioni non verificabili. Né Iddio né alcun diavolo potranno mai darci una metafisica ( Carnap). La metafisica è poesia  in concetti ( Hans Reichenbach). La maggior parte delle questioni filosofiche sono prive di senso ( Wittgenstein).

C) Obiezioni fatte in nome del primato del soggetto

Da Cartesio in poi si accentua la consapevolezza che non si dà conoscenza delloggetto se non nella misura  e secondo le condizioni stabilite dal soggetto. Come  si può pretendere di conoscere la realtà  in se stessa, il suo nucleo ultimo  ed essenziale, se tutto ci è dato solo attraverso la mediazione imprescindibile del soggetto?

Il fenomenismo kantiano nega la validità conoscitiva della metafisica (declassandola a semplice aspirazione, sia pure irrinunciabile, della coscienza, a puro ideale  della ragione) perché si può conoscere solo attraverso una interazione di forme  a priori dell’intelletto e di dati di fatto della esperienza sensibile. La realtà  in rimane inattingibile : si può solo pensarla esistente ( noumeno), ma non conoscerla scientificamente alla stregua dei fenomeni.

Con l’assolutizzazione idealistica del soggetto la realtà diventa un momento dialettico del processo storico  di autocostruzione dellIo  (il non-io di Fichte, la preistoria della coscienza di Schelling, la natura di Hegel : in una parola  l objectum che si oppone al subjectum, l antitesi che si oppone alla tesi). La metafisica è, per Hegel, un vecchio moddi vedere, una “mera  veduta  intellettualistica degli oggetti  della ragione, divenuta infine un puro dogmatismo per la sua pretesa che “mediante la riflessione si conosca la verità e si acquisti la coscienza di ciò che gli oggetti  veramente sono” e che di due affermazioni opposte luna dovesse essere vera e laltra falsa (cfr. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817, §§ 26-36).

Per lesistenzialismo, l’interesse si sposta  dallessere al singolo. Solo questultimo conta, solo ciò che lo riguarda è conoscibile, solo ciò che a lui risulta  esiste.  La metafisica è soltanto astrattezza e generalità, mentre il singolo è concreto e particolare. Kierkegaard inoltre  accusa la metafisica di essere  la principale responsabile della confusione che domina i tempi  moderni, confusione che consiste nellaver abolito  labisso immenso della differenza qualitativa fra Dio e luomo (cfr. Diario, n° 1293).  Le categorie della metafisica sono astratte; non solo, ma anche  sostanzialmente irreligiose. Mentre il Singolo è la categoria attraverso la quale devono passare dal punto di vista religioso il tempo, la storia, lumanità Con questa  categoria sta e cade la causa  del Cristianesimo, dopo che lo sviluppo del mondo ha raggiunto il grado attuale  di riflessione (ib. N° 1348).

Per J.P. Sartre poi, poiché  lesistenza precede lessenza(cfr. Lesistenzialismo è un umanismo, 1946) vengono a cadere e a dissolversi tutte quelle  forme  di conoscenza e di comprensione del reale che pretendono di attingere alluniversale e al necessario.

Nello stesso  Heiddegger, in cui si manifesta una forte volontà di riattingere lessere, in realtà  tutto si concentra sullesserci ( Dasein), sulle sue caratteristiche imprescindibili di finitezza e storicità, per cui risulta impossibile parlare in senso  proprio di metafisica. Si rimane nel campo  dellantropologia filosofica.

D) Obiezioni che partono dal primato della prassi.

La cultura  occidentale è stata da sempre contrassegnata dal dominio della teoria sulla prassi. Per molti pensatori s’impone perciò  l’istanza di un capovolgimento. Capofila di questa  “rivoluzione culturale è Karl Marx, di cui ricordiamo un famoso detto: I filosofi  hanno  soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo ( Tesi su Feuerbach, n° 11, 1845).  E ne Lideologia tedesca (1846)  scrive:  La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata allattività materiale e alle relazioni materiali degli uominiSono gli uomini  i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini  reali, operanti, co come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive.. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma  ideologica, e le forme  di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dellautonomia. Esse non hanno  storia, non hanno  sviluppo, ma gli uomini  che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche  il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza (I, A). Il criterio  della prassi come criterio  di verità è chiaramente affermato nella seconda delle Tesi su Feuerbach: Il problema se il pensiero umano abbia una verità oggettiva non è un problema teorico, ma pratico.

Nella prassi  luomo  deve dimostrare la verità, cioè la realtà e la potenza, la concretezza del suo pensiero. Questo è un caposaldo fondamentale di tutta la filosofia marxista. Basti, a conferma di ciò, questa  breve  citazione da Lenin: Il punto  di vista della vita, della pratica, deve essere  il punto di vista primo  e fondamentale della teoridella conoscenza ( Materialismo ed empiriocriticismo, 1908).

Anche  per il pragmatismo americano (Peirce, James, Dewey) il criterio  della verità consiste esclusivamente nella sua utilità in relazione alle esigenze vitali degli individui. Il conoscere non è altro che un momento propedeutico alla pratica manipolativa, il cui criterio  di legittimità è lutilità, lefficacia. Come  scrive  Peirce, la verità di una concezione poggia  esclusivamente sulle sue relazioni con la condotta della vita”     ( Che cosè il pragmatismo). La metafisica come ricerca  disinteressata di una sapienza primed ultima,  finalizzata al solo bisogno di conoscere la verità e priva di conseguenze pratiche immediate ( non di solo pane vive luomo), non è una forma di conoscenza legittima e sostenibile.
Anche  in una certa parte della riflessione teologica (la etichettiamo sbrigativamente con lespressione teologia della liberazione) la prassi  viene primdella teoria. La filosofia, la metafisica, la stessa  teologia non darebbero altro che universi fantomatici di occultamento della realtà (H. Assmann). Non esiste  alcuna  verità oggettiva, ontologica, che preceda la prassi:  la verità della verità è la prassi.  Scrive  padre  E. Schillebeeckx: La Chiesa per secoli  si è occupata principalmente di formulare delle verità, mentre non faceva  quasi  nulla perché si costruisse un mondo migliore. In altre parole, si limitò all ortodossia e si ridusse a lasciare l ortoprassi nelle mani di chi era fuori della Chiesa e dei non credenti ( I cattolici olandesi, 1970).  Quindi  anche  nella Chiesa, nella teologia, il primate spetta  all ortoprassi.


Laiuto  che può venire  dalla riflessione metafisica è insignificante se non addirittura fuorviante . Il terreno del non empirico è sdrucciolevole ( Paul Van Buren), perciò meglio  puntare tutto sulla presenza dei cristiani nella società, sui processi di liberazione dalle varie dipendenze, sullagire sociale e politico del popolo  di Dio.

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